“Facere de necessitate virtutem” (San Girolamo, 340-420)

Quale grande occasione questo doversi fermare… interrompere il normale fluire della vita quotidiana per obbligo di legge, per volgere lo sguardo ai nostri dinamismi interni!
Roberto Assagioli in “Psicosintesi armonia della vita” scriveva che uno del mali che affligge la nostra civiltà è l’eccessiva estroversione che ci ha reso analfabeti nei confronti del nostro mondo interiore. Questo squilibrio tra esteriorità ed interiorità minaccia da tempo la nostra salute mentale come è sin troppo evidente dalla crescita esponenziale dei professionisti e dal proliferare di figure professionali che dovrebbero aiutarci a porvi rimedio (a caro prezzo sia in termini economici che di sofferenza psicologica).
Tutto questo nella normalità della vita quotidiana immaginiamoci in tempi di emergenza coronavirus che qualcuno ha paragonato ai tempi di guerra e ancor peggio visto che il nemico contro cui si combatte è invisibile. Non a caso si inizia a parlare sempre più diffusamente oltre che di emergenza economica anche di emergenza psicologica ed iniziano a circolare i numeri telefonici pubblici e privati nonché del volontariato per l’assistenza psicologica.
Fermarsi, o almeno rallentare il ritmo frenetico della vita quotidiana, è comunque il primo passo obbligatorio per acquisire una maggiore consapevolezza percettiva (dal balcone ora mi giunge il fruscio del torrente che scorre a poca distanza, i pigolii e i canti degli uccelli e altri rumori complice anche il fatto che non passano più auto) e una maggiore distanza dai movimenti interiori fatti di impulsi, desideri, emozioni, immagini, sentimenti e pensieri (leggi: stella delle funzioni) che spesso ‘agiamo’ senza domandarci minimamente gli effetti che producono sugli altri presi come siamo dai nostri automatismi egocentrici.
A proposito del doversi fermare Georges Ivanovič Gurdjieff aveva ideato l’esercizio dello stop che un suo allievo Ouspensky riporta in “Frammenti di un insegnamento sconosciuto”: “Esso consiste in questo: ad una parola o un cenno del maestro, precedentemente convenuto, tutti gli allievi che lo odono o che lo vedono devono all’istante stesso sospendere i loro gesti, qualunque essi siano, immobilizzandosi sul posto nella posizione stessa in cui il segnale li ha
sorpresi. Inoltre, essi devono non soltanto cessare di muoversi, ma anche tenere gli occhi fissi sul punto stesso che stavano guardando al momento del segnale, tenere la bocca aperta se stavano parlando, conservare l’espressione della loro fisionomia e, se sorridevano, mantenere questo loro sorriso sul volto. In questo stato di “stop’, ciascuno deve
anche sospendere il flusso dei propri pensieri e concentrare tutta l’attenzione, mantenendo la tensione di muscoli, nelle differenti parti del corpo, al livello stesso ove essa si trovava e controllarla tutto il tempo, riportando per così dire la propria attenzione da una parte del corpo a un’altra. E deve rimanere in questo stato e in questa posizione fino a quando un altro segnale convenuto gli permetta di riprendere un atteggiamento normale, o fino a quando sia talmente stanco da essere incapace di conservare più a lungo l’attitudine originaria. Non si ha alcun diritto di cambiare qualche cosa, né il proprio sguardo, né il proprio punto di appoggio, niente.”(p.388)
Non è il caso di farlo per conto proprio. Gurdjieff sconsiglia il fai da te: “Nessuno che non sia il maestro o un incaricato da lui, ha il diritto di dare l’ordine dello ‘stop’. Lo ‘stop’ non potrebbe servire né da gioco né da esercizio tra gli allievi. Voi non siete mai in grado di conoscere la posizione in cui si trova un uomo. Se non potete sentire al suo posto, non potete sapere quali sono i muscoli che sono tesi e nemmeno sino a qual punto. Talvolta se qualche tensione difficile dovesse essere mantenuta, essa potrebbe causare la rottura di un vaso sanguigno e in certi casi provocare la morte immediata. In conseguenza, soltanto chi sia assolutamente certo di sapere quello che fa, può permettersi di dare l’ordine di ‘stop’.”(p.391)
Non corriamo rischi inutili ed in ogni caso prima documentiamoci adeguatamente… ho riportato questo esercizio non certo per riproporlo, non avendolo peraltro mai fatto a dovere con o senza maestro, quanto, esclusivamente, per il suo insegnamento di fondo: l’immobilità ci rende consapevoli di ogni disagio del nostro corpo, persino del più piccolo dolore… portando l’attenzione sulla parte dolorante ne attenuiamo la sofferenza spontaneamente se non sono coinvolti altri ‘livelli’ oltre quello fisico. Provare per credere! In fondo il dolore è lo schiamazzo di un bambino che vuole la nostra attenzione, attenutala si calma a patto che non si tratti – lo ripeto – di manifestazioni che denunciano problematiche ben più gravi.
Lo stesso dicasi analogicamente dei nostri impulsi, desideri, emozioni, sentimenti: ci rendono talvolta anelanti, ansiosi, angosciati e diveniamo per gli altri petulanti, assordanti e irritanti. Portando l’attenzione su questi movimenti interiori ne diveniamo gradualmente più consapevoli e ci sentiamo meno oppressi, più liberi. Non è forse quello che i professionisti della psiche ci aiutano a fare? Ovviamente anche qui: purché non si tratti di manifestazioni che denunciano problematiche ben più gravi e profonde.
Ci vuole consapevolezza e che la consapevolezza sia il toccasana per l’essere umano che per troppo tempo ha trascurato se stesso non ce lo dicono solo i ‘filosofi’ di un tempo, le tradizioni spirituali orientali e occidentali e le psicologie transpersonali di oggi. Questa convinzione è alla base del coaching moderno. La ritroviamo in un bestseller internazionale del padre del coaching John Whitmore dal titolo: “COACHING come risvegliare il potenziale umano nella vita professionale e personale”. Whitmore fa della consapevolezza uno dei due pilastri della sua ‘cura’, l’altro è la responsabilità! Trattando dello sviluppo delle abilità fisiche egli sostiene che la coscienza delle percezioni corporee può essere fondamentale: “Nella maggior parte delle attività sportive, ad esempio, il modo più efficace per aumentare l’efficienza fisica individuale è fare in modo che la persona diventi sempre più cosciente delle proprie percezioni fisiche durante l’attività stessa. Questo fatto è scarsamente compreso dalla maggior parte dei Coach sportivi che insistono a imporre le tecniche dall’esterno. Quando la coscienza cinestesica è concentrata su un movimento, le immediate scomodità e le corrispondenti inefficienze del movimento vengono ridotte e presto eliminate. Il risultato è una forma più fluida ed efficiente, con l’importante vantaggio di essere fatta su misura per il corpo della persona interessata, anziché basarsi sul corpo della persona media.”(p.116)
Lo stesso ragionamento si può fare per la dimensione psichica: quanti nostri comportamenti sono dettati coattivamente e messi in atto senza un briciolo di consapevolezza? Talvolta non rispondono neanche ad un bisogno effettivo ma sono sostitutivi di mancanze di cui non vogliamo prendere coscienza perché generano tensione o rabbia, riaprono ferite dolorose che vogliamo tenere alla larga.
Ma anche quando questi comportamenti sono espressioni del nostro vivere sociale dobbiamo essere consapevoli che sono solo una parte di noi, un ruolo, una competenza, una incombenza e non certo il tutto che noi siamo (si è una madre migliore se non si è solo una mamma). Siamo chiamati a compiti e ruoli molteplici: se ne siamo consapevoli li gestiamo noi altrimenti sono loro a prendersi gioco di noi con i conseguenti ‘dolori’ che conseguono ad ogni forma di unilateralità.
Ed è proprio questo l’assunto di base della psicosintesi: l’animo molteplice. Non siamo affatto “tutti d’un pezzo”, siamo invece ‘parti’ (subpersonalità) tenute insieme da una identità perlopiù instabile e sofferente. Portare l’attenzione su queste parti doloranti è il primo passo per conoscerle, imparare a gestirle e trasformarle in un dialogo che può durare a lungo fondato sui pilastri della consapevolezza e della responsabilità.
Facciamo di necessità virtù: utilizziamo un po del nostro tempo a pensarci sopra. Se non ora… quando?
Lavis
30 marzo 2020
Fernando Potì