Modello ideale

Riflessioni sull’inventario delle immagini con la Tecnica del modello ideale
La Tecnica del modello ideale ha lo scopo “di utilizzare il potere dinamico e creativo delle immagini, particolarmente delle immagini visive”. E’ quanto scrive Assagioli introducendo la tecnica sotto il titoletto Scopo. Un paio di pagine dopo ripete lo stesso concetto sotto il titoletto Principi informatori richiamando in modo più incisivo il “potere creativo dell’immaginazione” il quale “si basa sulla legge psicologica per la quale ogni immagine ha in se un elemento motore che tende a tradursi in azione”. Si tratta della prima delle dieci leggi della psicodinamica esposte da Assagioli ne L’atto di volontà nell’ambito della trattazione della volontà sapiente la quale recita: “Le immagini e le figure mentali e le idee tendono a produrre le condizioni fisiche e gli atti esterni ad esse corrispondenti”. Viene delineato qui un vero e proprio potere autonomo, intrinseco alla stessa facoltà dell’immaginare; un potere che il soggetto può utilizzare ma che opera in ogni caso spontaneamente sia a livello conscio che inconscio.
Un potere, anche questo, sottratto al monopolio della magia sia bianca che nera (e dell’esoterismo in generale), che da sempre ha fatto uso dell’immaginazione per le proprie realizzazioni; un potere reso di dominio pubblico, messo dalla psicosintesi a disposizione di tutti, nel bene e nel male, poiché ogni potere è caratterizzato dal fatto che se non lo si usa attivamente per scopi personali o universali, lo si subisce passivamente e, quasi sempre, inconsapevolmente. Ce lo ricorda lo stesso Assagioli commentando la prima legge della psicodinamica quasi volesse rispondere a quanti negano tale possibilità non solo a se stessi ma all’uomo in generale.
All’obiezione che noi non ci rendiamo conto che le immagini e le idee si trasformano in azioni, si può rispondere che questo succede perché, ordinariamente, numerose immagini mentali si affollano in noi contemporaneamente o in rapida successione, ostacolandosi e intralciandosi a vicenda. Questa legge è alla base di tutti gli effetti psicosomatici, sia patologici che terapeutici, ed è uno dei fatti che spiegano la suggestione di massa, sfruttata così astutamente e con tanto successo dai pubblicitari e dagli altri “persuasori”, inclusi gli uomini politici.
Se la Tecnica del modello ideale si fonda sul potere creativo dell’immaginazione non possiamo esimerci dal seguire il suggerimento del nostro autore il quale senza mezzi termini rinvia per ulteriori approfondimenti scrivendo tra parentesi: “(vedi: Tecnica per l’allenamento e l’uso della immaginazione)”.
In questo paragrafo, che ha per titolo Allenamento e uso dell’immaginazione, in realtà non viene proposta alcuna tecnica specifica e forse proprio per questo il curatore dell’opera ne ha eliminato il termine. Assagioli aggiunge invece ulteriori riflessioni sull’immaginazione quasi a volerla inquadrare meglio e soprattutto a delineare maggiormente l’importanza della pratica delle tecniche ad essa specificamente dedicate, successivamente esposte, ai fini del percorso psicosintetico e come prerequisito indispensabile alla Tecnica del modello ideale. Queste riflessioni ci dicono che la funzione immaginativa è di per se molto particolare e che ad essa la psicosintesi dedica una particolare attenzione. E’ di per se particolare perché “può operare a diversi livelli contemporaneamente: quelli della sensazione, degli impulsi e desideri, dei sentimenti, del pensiero e dell’intuizione. In un certo senso essa combina quelle funzioni in varie proporzione”. Nella stella delle funzioni oltre a contrapporsi alla funzione impulso e desiderio e a fare contemporaneamente da argine e da portavoce ad essa, ha le mani in pasta un po’ dovunque, con tutte le funzioni, e a nessuna di esse è mai del tutto estranea. Si pensi ad esempio al ruolo che l’immaginazione svolge nel condensare e fissare la intuizioni in immagini, simboli e in tante altre forme artistiche. E come non riconoscerla nella presenza del volto dell’amato/a che ripetutamente ritorna alla mente per soffiare sul fuoco appena divampato. Potremmo forse azzardare che la funzione immaginativa è la più plastica e onnipresente funzione della stella tenuto conto che la volontà si situa ad un livello superiore, è cioè una meta funzione.
Questo spiega la particolare attenzione della psicosintesi per l’immaginazione sia nella sua funzione evocatrice, appena accennata, sia nella sua funzione creatrice di immagini. Scrive Assagioli:
“L’immaginazione nel senso preciso di funzione evocatrice e creatrice di immagini, è una delle più importanti e più spontaneamente attive, in entrambi i suoi aspetti, cosciente e inconscio. Perciò è una delle funzioni che deve venir regolata quando è eccessiva o dispersa; venir sviluppata quando è debole o inibita; e poi ampiamente utilizzata data la sua grande potenza.
Questo spiega perché nella terapia psicosintetica ce ne occupiamo in modo particolare, tanto più che l’uso della tecnica dell’immaginazione è uno dei mezzi migliori per giungere alla sintesi delle diverse funzioni”.
In termini operativi la funzione immaginazione va regolata quando è eccessiva o dispersa, sviluppata quando è debole o inibita e successivamente ampiamente utilizzata nel percorso di crescita interiore e, coerentemente, anche esteriore. La regolazione richiama alla mente, ancora una volta, l’uso eccessivo e spesso spasmodico e occultamente coercitivo dell’immaginazione che nella realtà sociale attuale è andata ben al di là di qualsiasi pessimistica previsione delle rappresentazioni della società dello spettacolo del secolo scorso. Quelle denunce erano di certo in difetto ma non avevano messo in conto la flessibilità dell’animo umano che sa adattarsi anche agli ambienti più ostici sviluppando gli adeguati anticorpi. Non basta, tuttavia, una resistenza passiva che ci lascia comunque in balia di una fantasia troppo facilmente influenzabile dall’ambiente esterno e di quant’altro ci suggerisce confusamente dall’interno il nostro animo molteplice. Assagioli ci invita ad un atteggiamento attivo, a focalizzare più attentamente questa funzione nelle sue basi oggettive e naturali, che ci parlano di un potere misconosciuto, o conosciuto e usato solo da pochi, perché i più si sono limitati sino ad ora – non importa se per cause soggettive o oggettive – ad uno psichismo superficiale che ne impediva la genuina e chiara manifestazione. Occorre, per fare questo, sfatare la favola divenuta ormai una credenza che il potere dell’immaginazione è una metafora artistico letteraria che nulla ha a che fare con la realtà. Occorre invece coglierne il senso anagogico il quale prescrive precise condizionalità entro le quali l’immaginazione creativa è una realtà oggettiva e dimostrabile scientificamente. Queste riflessioni combaciano perfettamente con quanto la Magia ha sempre professato e tutte le Tradizioni hanno confermato. A testimonianza di ciò riportiamo quanto scritto da Henry Corbin in L’immaginazione creatrice.
“Qui, tuttavia, un avvertimento si impone: questa Imaginatio non deve, soprattutto, essere confusa con la fantasia. Come già notava Paracelso, a differenza dell’Imaginatio vera, la fantasia (Phantasey) è un gioco del pensiero, senza fondamento nella natura: essa non è altro che “la pietra miliare dei folli”.
Avvertimento essenziale, che previene il pericolo di una confusione diffusa, risultato di concezioni del mondo a causa delle quali, se si continua a parlare di una funzione “creatrice” dell’Immaginazione, lo si fa in forma di “metafora”. Si sono prodotti tanti sforzi nella teoria della conoscenza, tante “spiegazioni” (derivate da questa o quella forma di psicologismo, dallo storicismo, dal sociologismo) tese ad annullare il significato oggettivo dell’oggetto, che ci ha condotto, a paragone con la concezione gnostica dell’Immaginazione, ad un agnosticismo puro e semplice. A questo livello, esaurito ogni rigore terminologico, l’immaginazione viene confusa con la fantasia. Che essa sia, invece, un valore noetico, che sia un organo della conoscenza, in quanto “creante” dell’essere, sono nozioni che difficilmente rientrano nelle nostre abitudini.”
Siamo in grado, ora, di comprendere il significato che Assagioli attribuisce agli esercizi che ci propone di fare. L’allenamento dell’immaginazione prende l’avvio con la Tecnica della visualizzazione la cui grande importanza e predominanza rispetto ad altre forme immaginative (uditive, tattili, olfattive, gustative, cinestetiche, ecc.) – scrive Assagioli – sta “nel fatto che costituisce l’allenamento preliminare necessario per l’uso di altre importanti tecniche. La rappresentazione del ‘modello ideale’ (descritta più oltre) richiede la capacità di visualizzare in modo vivido e preciso.” La capacità di visualizzare vividamente e con precisione rende possibile, tra le altre, “l’uso pratico della visualizzazione simbolica (vedi Tecnica per l’uso dei simboli)”.
Non si creda comunque che il Procedimento descritto da Assagioli consista nel semplice aspetto tecnico che peraltro è limitato alla visualizzazione di numeri su una lavagna e successivamente a quella di forme geometriche variamente colorate. L’aspetto interessante, soprattutto in un’ottica autoformativa, sta nel fatto che per il nostro autore “l’esercizio offre molti dati utili per mettere in evidenza differenze nel funzionamento psichico individuale”. Per fare un esempio relativo alla visualizzazione delle forme e dei colori: “la visualizzazione delle forme è connessa più alla funzione mentale, del pensiero, mentre quella del colore con la funzione emotiva”.
Per concludere questa trattazione dell’immaginazione sulle orme di quanto ci ha lasciato di scritto Assagioli e di nostra conoscenza e dopo aver rinviato alla pratica delle specifiche tecniche come uno dei prerequisiti dell’uso della Tecnica del modello ideale, ci preme sottolineare quanto ci ha particolarmente colpito dei Principi informatori della Tecnica della visualizzazione dove Assagioli anticipa, di sfuggita, uno dei principi base dello sviluppo della Programmazione neurolinguistica (PNL): “Ho menzionato la legge fondamentale secondo la quale ogni immagine ha una tendenza motrice. Aggiungo ora qualcosa di più: “Ogni movimento richiede una sua immagine che lo preceda”.”
L’inventario delle immagini
La tecnica del modello ideale mira a sostituire ai modelli già esistenti in noi e che danno un indirizzo perlopiù inconsapevole alla nostra vita, un modello umano superiore, cosciente e attuabile, facendo leva prevalentemente sul potere dinamico e creativo delle immagini.
Assagioli in Principi e metodi della psicosintesi terapeutica, (p.141) scrive che, nell’applicare questa tecnica, dobbiamo inizialmente renderci conto delle differenti ‘immagini’ che abbiamo della nostra personalità e di quelle che gli altri hanno e proiettano su di noi, e che tali immagini possono essere profondamente diverse tra loro per qualità e origine, ed essere anche in conflitto tra di loro.
Dopo di che ne fa un preciso elenco per orientarci in questa ricerca.
1. Quello che crediamo di essere
2. Quello che ci piacerebbe essere, che vorremmo essere
3. Quello che gli altri credono che noi siamo
4. Quello che gli altri vorrebbero che noi fossimo
5. Quello che gli altri evocano e producono in noi
6. Quello che vorremmo sembrare agli altri
7. Quello che possiamo diventare
Vediamole in dettaglio per farci un’idea più precisa e stimolante delle domande da porci lasciando all’inconscio il tempo di lavorarci sopra.
1. Quello che crediamo di essere, da distinguere in immagini sopravvalutative e sottovalutative. Alberto Alberti le chiama miserabili e presuntuose con l’avvertenza che se a livello cosciente dominano le prime è il caso di aspettarci che le seconde siano da qualche parte sommerse nell’inconscio e viceversa.
Daniele De Paolis in L’Io e le sue maschere commentando questo punto scrive: “qui possiamo compiere svariati errori anche perché crediamo volentieri ciò che ci fa piacere. Tuttavia in alcuni casi ci sottovalutiamo fino ad arrivare a svalutarci.”
2. Quello che ci piacerebbe essere, che vorremmo essere. Su questa seconda immagine dell’inventario Daniele De Paolis scrive: “qui occorre stare attenti a non inseguire mete utopistiche”. Più nel dettaglio Assagioli annota: “Qui bisogna distinguere bene fra l’immagine idealizzata di sé che è irreale, non attuabile e il modello ideale che può in qualche misura essere attuato.”
L’immagine idealizzata di sé è l’interfaccia esterna del giudice, la sua controparte, che preferisce le oscurità inconsce alla luce della coscienza. D’altronde non può essere diversamente nel momento in cui il giudice si fa carico anche della nostra parte ‘malvagia’ e inconfessabile che contribuisce al senso di realtà che ci dà stabilità, ma solo apparente, in un mondo in continuo mutamento. La sua messa in discussione ci fa soffrire molto perché ci fa sentire come se venisse meno il terreno sotto i piedi ingenerando con ciò un angosciante senso di incertezza esistenziale. Tendiamo allora ossessivamente a riconfermare la nostra immagine idealizzata pubblicizzando ossessivamente le nostre convinzioni ideologiche all’esterno. Queste convinzioni, peraltro, tendono tanto più a rivestirsi dei nobili panni dell’ideale quanto più malvagi e inconfessabili sono i suoi crimini.
Da tenere inoltre presente che anche le esperienze transpersonali tendono a lasciare una traccia tanto più profonda quanto più alta è la vetta che si raggiunge e che se l’equilibrio personale non è in grado di contenerle e stabilizzarle saranno inevitabilmente fagocitate dal giudice interiore sotto forma di idealizzazione del Sé ingenerando, spesso, un atteggiamento giudicante e isolante oppure una inflazione dell’io.
3. Quello che gli altri credono che noi siamo. Le immagini che gli altri ci ‘gettano’ addosso sono molto variegate e spesso contraddittorie tuttavia non si può dire che esse siano del tutto arbitrarie poiché se è vero che ci dicono molto su chi le proietta e sul suo mondo al tempo stesso esse rappresentano le inevitabili reazioni al nostro comportamento che sono tanto più energiche per quanto sanno sollecitare le emozioni profonde altrui e, per rispecchiamento, evidenziano le nostre zone sintomatiche, lacunose e inconsce. Wilber in Oltre i confini ci dice senza mezzi termini che ogni emozione particolarmente intensa nelle relazioni evidenzia un nostro conflitto interiore che si colloca ad un preciso livello dello spettro della coscienza e richiede al tempo stesso determinate pratiche terapeutiche per essere sanato. De Paolis scrive: “Questa categoria è molto ampia perché contiene le immagini che «ognuna» delle persone che conosciamo si fa di noi: immagini naturalmente contrastanti tra loro e contraddittorie (nelle sue opere Pirandello descrive bene questo fatto).”
4. Quello che gli altri vorrebbero che noi fossimo. Queste immagini create dagli altri corrispondono alle loro aspettative, ai loro desideri o ai loro preconcetti nei nostri confronti. “ Queste – scrive Assagioli – costituiscono spesso delle vere imposizioni psichiche”. Qui ci sono talvolta dei veri e propri ricatti da parte di persone che credono di conoscere il loro e il nostro bene, ma che, il più delle volte, hanno bisogno di conferme che proiettano sugli altri per rassicurarsi sui propri stessi modelli di vita. Oppure, ancora, proiettano sugli altri le proprie aspirazione che non hanno saputo realizzare o che sono stati costretti ad accantonare come il padre che spinge il figlio a dedicarsi alla musica perché lui non lo ha potuto fare. Oppure hanno bisogno di idealizzare chi possiede ciò che a loro sembra mancare, o che non accettano del tutto o in parte in se stessi. C’è poi l’uniformità, la richiesta spesso implicita di uniformarsi a quello che fanno gli altri per non diventare la pecora nera della famiglia o il capro espiatorio del gruppo. Ma lo stesso discorso vale per la setta, il partito, il movimento e così via. A questo riguardo l’esempio più semplice è quello del ruolo lavorativo dove siamo costretti a rispettare non solo il cosiddetto codice deontologico, che spesso ha una sua ragione d’essere anche a tutela degli utenti, ma anche un certo modo di vestire, di relazionarci, di farsi vedere in un certo modo, etc… Queste maschere tuttavia, pur essendo spesso molto limitanti, non impediscono, al giorno d’oggi, mai del tutto qualche forma di personalizzazione e di autenticità. Il rifiuto all’omologazione si paga comunque caro, spesso con l’ostracismo perché è più pericoloso chi non accetta l’ortodossia che il nemico dichiarato là fuori. Non c’è pietà per il diverso o per l’eretico: se non riga dritto o non abiura le sue idee va annientato nei peggiori dei modi e pubblicamente per evitare che altri lo imitino o alzino la testa.
De Paolis in merito scrive: “Gli altri non si limitano ad avere immagini sbagliate di noi, ma ci vorrebbero come loro piace; spesso proiettano su di noi le loro esigenze, i loro ideali, i loro gusti, etc. In questa categoria rientra il ben noto «effetto Pigmalione».”
5. Le immagini che gli altri evocano e producono in noi cioè le immagini di noi stessi create dagli altri. In questo caso ciò che gli altri volevano più o meno consapevolmente che noi fossimo si è tradotto in realtà. Non si tratta comunque solo dei condizionamenti spesso inevitabili che si sono impressi nel nostro inconscio indotti dalla famiglia o dall’ambiente circostante, ma anche di ciò che sta dietro al nostro rifiuto di omologarci ai desideri altrui poiché, soprattutto da adolescenti, non abbiamo fatto altro che polarizzarci all’opposto di ciò che gli altri volevano che noi fossimo: sembriamo l’opposto e proprio per ciò siamo identici… Ovviamente possiamo anche avere la maturità di respingere consapevolmente la pressione esterna ma questo può avvenire solo una volta realizzato un certo equilibrio personale.
De Paolis scrive: “Si tratta dei modelli che gli altri riescono a farci accogliere al di fuori della nostra volontà: qui siamo in pieno campo suggestivo e non poche sub-personalità hanno questa origine. Ciascun individuo col quale ci relazioniamo evoca una particolare sub-personalità e ciò accade inconsapevolmente, meccanicamente.”
6. Quello che vorremmo sembrare agli altri. “Sono le ‘maschere’ che ci mettiamo per vanità, per tornaconto, ma talvolta anche per necessaria autodifesa. Sono maschere diverse per ognuno dei nostri rapporti interpersonali e sociali. Si può dire che sotto questo rispetto vi è un continuo avvicendamento di ‘mascherature’ tra noi e gli altri”, scrive Assagioli. Il gioco delle maschere non è così indifferente come a cuor leggero potrebbe apparire. Le maschere legate alle mode del momento veicolano messaggi molto precisi che possono condizionare pesantemente i comportamenti anche se, nel tempo, maturano anche gli anticorpi per renderle inoffensive o, in qualche modo, metterle al servizio della propria soggettività. De Paolis scrive: “Sono le maschere che portiamo nelle nostre relazioni sociali: talune le mettiamo per vanità, per tornaconto ma, talvolta, per necessaria autodifesa.”
7. Quello che possiamo diventare. “Questo costituisce il ‘modello ideale’, lo scopo della psicosintesi”. Su questo punto Assagioli è stato molto parsimonioso nel commento. Anche se già nel punto 2 ci sono indicazioni in merito. Sembra che se a ciò che vorremmo essere sottraiamo l’immagine idealizzata che abbiamo di noi stessi che è irreale, non attuabile, ci rimane il modello ideale che può in qualche misura essere attuato. Definizione questa che ci sembra un po’ macchinosa ma che potrebbe avere un significato molto più profondo di quanto non emerga ad una prima lettura superficiale. L’immagine idealizzata è infatti fonte di passione e desiderio e, in alcuni casi può condurre anche a sintesi parziali consistenti, tuttavia, è al tempo stesso fonte di notevoli attriti e sofferenze poiché – come scrive Assagioli – è irreale, non attuabile. In altre parole la nostra insensibilità e deformazione della realtà ci viene restituita come in uno specchio e con la stessa indifferenza con cui l’abbiamo concepita inchiodandoci alla nostra croce fino a che non impariamo la lezione. Per sottrazione ci avviciniamo a ciò che possiamo diventare e quindi al modello ideale.
Le Voci dell’Io
Nel 1990 Giancarlo Trentini ha presentato in diverse sedi istituzionali un modello concettuale denominato tetralogia dell’Io o quadrato delle proiezioni dell’Io o più semplicemente Le voci dell’Io, dizione che abbiamo preferito.
“Tale modello, in estrema sintesi, concettualizzava la possibilità di articolare funzionalmente l’Io in quattro parti o respiri (non staticamente o meccanicamente intesi, si badi bene!):
a) l’Io idealizzato: ciò che credo di essere, in termini di presentabilità più o meno nobilitata nel sociale, in buona fede;
b) l’Ideale dell’Io: ciò che aspiro valorialmente e tendo ad essere; il mio auto-modello maturo di riferimento;
c) l’Io ideale: ciò che fantasiosamente e onnipotentemente il mio narciso, ancora e sempre (più o meno) infantile, si illude di essere; il me stesso immaginario che sta fuori dalla realtà;
d) il Super Io: ciò che il mio censore interno mi prescrive o proscrive, il me stesso morale.” (p.12)
E’ sin troppo evidente il collegamento di queste voci dell’Io con l’inventario dei modelli o delle immagini della Tecnica del modello ideale. In qualche modo, non certo arbitrario, le quattro varianti dell’Io della tetralogia possono essere abbinate a quattro delle immagini di sé proposte da Assagioli. Tenendo conto poi che delle sette proposte da quest’ultimo due riguardano gli altri ed una, la settima, rappresenta il modello ideale dell’Io, la corrispondenza assume una notevole pregnanza. Tenendo infine conto della scarna descrizione che ne da Assagioli, che noi abbiamo tentato di ampliare con nostre riflessioni emerse nel corso dello studio e dell’applicazione della tecnica stessa, la proposta del Trentini che si fonda coerentemente sui contributi teorici della esplorazione dell’Io da Freud ai nostri giorni e che, pur essendo ancora al vaglio della ricerca scientifica, ha già ricevuto le prime conferme, può essere un utile supporto per specificare meglio le ‘immagini’ della personalità proposte da Assagioli nel suo inventario.
Con queste necessarie accortezze proviamo ad esplorare meglio la proposta del Trentini e dei suoi collaboratori o colleghi. Dal testo citato rileviamo che dalla ricerca è emerso il valore euristico dei verbi modali legati all’area semantica del volere (desiderare, piacere, adorare, ecc.) nella forma dell’indicativo, allora è più probabile che si sia in presenza di una enunciazione proveniente dall’Io Ideale. Quando l’enunciazione ha la forma grammaticale del modo condizionale o congiuntivo si è prossimi all’Ideale dell’Io. Lo stesso discorso vale per l’uso del verbo dovere e affini: nella forma dell’indicativo ci segnala la probabile emersione del Super Io (spesso corroborata dall’uso di proverbi e affermazioni che partono da negazioni); nella forma grammaticale del modo condizionale o congiuntivo siamo prossimi all’Io Idealizzato questa volta spesso corroborato da modi di dire, stereotipi, elencazione di luoghi comuni.
Applicando queste scarne regole alla breve descrizione che Assagioli fa delle diverse immagini che dominano la scena della personalità abbiamo inequivocabilmente i seguenti abbinamenti.
Io ideale = Quello che noi crediamo di essere
Ideale dell’Io = Quello che ci piacerebbe essere, che vorremmo essere
Super Io = Le immagini di noi stessi create dagli altri
Io idealizzato = Quello che vorremmo sembrare agli altri
Nel modello del Trentini è molto interessante, rispetto al nostro discorso, anche l’intuizione del funzionamento bipolare di ogni voce dell’Io e della sua evoluzione da cacofonica a eufonica, che serve a segnalarci il grado di armonia che regna nella personalità. Infine, a nostro parere, vale la pena soffermarsi sull’intuizione di Alberto Zatti “che pone un ipotetico parallelismo tra le Voci dell’Io, così come sono state descritte fino ad ora, ed alcuni straordinari personaggi della letteratura europea degli ultimi secoli” (p.88). Zatti sottolinea che questi personaggi “vengono alla luce nella cultura occidentale, nel periodo storico in cui si afferma la cosiddetta ‘modernità’, si tratta cioè di personaggi rappresentativi della soggettività moderna”.
Don Giovanni e l’Io Ideale
Il primo personaggio letterario preso in considerazione è Don Giovanni e nell’abbinamento con le Voci dell’Io corrisponde all’Io Ideale che a sua volta corrisponde a ‘Quello che noi crediamo di essere’ nelle immagini dell’inventario suggerite da Assagioli. Scrive Zatti:
“Don Giovanni è simbolo della voglia di vivere, del piacere terreno, dell’amore leggero e insaziabile. Egli incarna la potenza dirompente della sessualità, costantemente alla ricerca di una propria realizzazione destinata a mai arrestarsi perché una volta consumato il rapporto sessuale non riesce a trasformarsi di per sé in relazione fra un uomo e una donna. L’energia dirompente di Don Giovanni arriva a sfidare ogni potere costituito della società: la donna è donna indipendentemente dalla classe sociale di appartenenza. Le forze telluriche di Don Giovanni sfidano addirittura le potenze divine, che alla fine lo danneranno. Anche se, per la tranquillità di tutti, Don Giovanni sarà alla fine punito per i suoi peccati, egli in realtà non morirà mai come personaggio che ha fatto del processo primario, come direbbe il buon Freud, il modo di funzionamento prevalente se non unico della propria vita.(p.90)
E’ sin troppo evidente la connotazione infantile di questo personaggio che è tipica dell’Io Ideale (tipici meccanismi di difesa sono: proiezione, negazione, isolazione, autismo). In esso spicca la tendenza narcisistica sia per l’egocentrismo che lo caratterizza sia per il dominio della sfera emozionale sulle altre il che lo apparenta alla subpersonalità depressa nella sua disperata ricerca di amore che da se stessa si nega. Tuttavia Zatti ci tiene a precisare che a questa intonazione cacofonica dell’Io Ideale se ne contrappone una eufonica, eroica, nel momento in cui si riesce ad incanalare le forze pulsionali dentro un progetto che lo trascenda. A tanto giunge il personaggio mitologico Ercole il quale pone le sue esuberanti energie vitali “al servizio di cause che certo egli non concepisce ma che comunque egli interpreta con la partecipazione di tutto se stesso. Il destino lo rende eroe malgrado o forse proprio a ragione della sua spontaneità e generosità d’animo.”
Non sappiamo né riusciamo a immaginare con quanta consapevolezza l’autore del brano sopra riportato abbia tirato in ballo Ercole. Certo è che le 12 fatiche di Ercole hanno da sempre rappresentato il percorso che porta alla trascendenza per mezzo della via eroica. Ercole, o Eracle, delinea quindi una possibilità che l’uomo ha di trascendersi ritornando infante, in quel periodo della vita in cui la finalizzazione profana non ha ancora rotto l’incanto della partecipazione mistica alla totalità dell’essere. Fa inoltre sorgere il dubbio che queste quattro facce dell’Io non siano che un modo di esprime quei quattro elementi della croce che una volta equilibrati manifestano al proprio centro quella materia prima su cui gli alchimisti lavorano per trasformare tutti i metalli in oro. Le Voci dell’Io, in altre parole, se riescono a creare un coro armonico espressione della missione, o del destino, che il singolo è chiamato ad assolvere su questa terra, non stanno facendo altro che suonare la melodia dell’Io, quello centrale, senza qualificazione alcuna, quell’Io che non ha contenuti di cui parla Assagioli. Quattro voci che intonate alla perfezione e armonizzate tra di loro sono ora disponibili per il direttore d’orchestra, l’Io, per suonare quell’unica melodia per cui è stato chiamato in questo mondo pro salute populi.
Don Chisciotte e l’Ideale dell’Io
Passiamo ora ad un personaggio, anch’esso universalmente conosciuto, che rappresenta l’Ideale dell’Io e che corrisponde nell’inventario della Tecnica del modello ideale a ‘Quello che ci piacerebbe essere, che vorremmo essere’. Si tratta di Don Chisciotte della Mancia che rappresenta in modo emblematico il prototipo di chi vuole imporre il proprio ideale al di sopra delle convenzioni sociali e delle bassezze della vita quotidiana. Una sorta di redentore umano che per difendere le più pure essenze dell’amore, dell’onore e della giustizia, si scontra con l’indifferenza altrui che ogni giorno lo percuote e lo ferisce.
Don Chisciotte è notoriamente un idealista e per questa ragione è passato alla storia della letteratura: tutti lo portano nel proprio immaginario di uomini occidentali come il simpatico e ancorché sfortunato rappresentante dello spirito della cavalleria. L’episodio della battaglia contro i mulini a vento rimane forse il passo narrativo più emblematico di una personalità che proietta talmente sulla realtà che lo circonda il proprio mondo ideale da portarlo addirittura a vedere vividamente, anche se falsamente, più le proprie aspettative della realtà che la realtà stessa. Certo Don Chisciotte non rappresenta l’utopia capace di costruire città nuove, ma è pur vero che è forse proprio la disperazione inconsapevole di un sedicente cavaliere dall’animo puro che si ritrova a vivere nel cinismo di un mondo di “furbacchioni” a rendere più vicino a noi tutti questo personaggio anche un po’ grottesco4.
Nell’esaltazione idealistica la realtà umana appare come dovettero apparire i mulini a vento a Don Chisciotte e come appare al cucciolo dell’uomo la rinuncia alla totalità. Uno strappo che può essere molto doloroso e che può quindi cristallizzarsi nei tipici meccanismi di difesa dell’Ideale dell’Io: l’identificazione, la regressione e la traslazione. Quando la realtà quotidiana non è accogliente per come viene vissuta dall’infante in relazione alle figure di riferimento, nasce spontaneo un rifiuto ed uno spavento che genera mostri. Il rifugio in un mondo ideale fa allora da trincea in cui ci si difende contro la barbarie di una realtà vista solo a metà. Queste caratterizzazioni apparentano Don Chisciotte alla subpersonalità schizoide, fondata sul logos all’opposta di quella depressa che il suo fondamento nel primato dell’eros.
In termini evolutivi l’Ideale dell’Io è anche la possibilità di immaginare un futuro migliore corrispondente alle attese del momento storico che si sta vivendo e di contribuire a costruirlo. Ma allora ci si è sganciati dalla totalità indifferenziata del narcisismo, si è elaborato il lutto della perdita e si fa strada la possibilità di vivere la dimensione reale con la piacevolezza di chi si trova a proprio agio e si rende conto di non aver poi perduto del tutto ciò che stava tanto a cuore. L’Ideale dell’Io può allora presentarsi come strategia per cambiare il mondo, in piccole e grandi cose, anticipando quanto altri non riescono ancora a vedere. Ma anche in questo caso ci si è spostati dalla periferia al centro delle Voci dell’Io dove è possibile udire la voce dell’Io strategico come lo chiama Zatti.
Amleto e il Super Io
Siamo così giunti al terzo personaggio in rappresentanza del Super Io a cui corrisponde nell’inventario di Assagioli la voce: ‘Le immagini di noi stessi create dagli altri’. Si tratta di Amleto “noto a tutti per la sua incapacità a risolversi nell’eseguire una vendetta commissionatagli dal fantasma del padre assassinato.” Zatti sottolinea che già il fatto che Amleto venga richiamato dal fantasma del padre chiama in causa il Super Io. Se poi a ciò si aggiunge il fatto che la madre è andata in sposa al presunto assassino, riesumando le vicende edipiche, si ha un’ulteriore conferma, “come Ernest Jones nel 1923 ha avuto modo di sottolineare,” che il personaggio Amleto è intimamente connesso alle tematiche del Super Io. Ma ciò che caratterizza ancor più Amleto come personaggio rappresentativo del Super Io è il fatto che egli “non vuol compiere semplicemente un atto di vendetta ma un atto di giustizia, sia esso la condanna o il perdono”.
Qui si evidenzia ancora una volta l’ambivalenza delle Voci dell’Io, il soggetto può essere completamente agito dai doveri introiettati (i tipici meccanismi di difesa del Super Io sono appunto l’introiezione, la fissazione, la rimozione, il blocco degli affetti e la formazione reattiva) oppure, con un crescendo di consapevolezza, addivenire all’assunzione di responsabilità delle proprie scelte fino a poter cambiare le regole tenendo conto non solo della morale contingente ma anche, ad un livello superiore, dell’etica che esprime valori universali.
In sostanza, il Super Io è l’istanza che parla sì di doveri, ma di doveri che sono stati considerati giusti. Quando il dubbio etico si fa strada, perché le situazioni contingenti sfuggono ad una loro troppo facile categorizzazione, è il processo mentale del Super Io che interviene ad elaborare nuove forme di giudizio, non sempre e solo secondo la tradizione, bensì anche secondo il senso di responsabilità etica che proprio nel Super Io trova la propria massima realizzazione. Notiamo infine come dubbio e moralità non siano affatto categorie concettuali antitetiche, tutt’altro. Se si considera la moralità non una semplice applicazione di rigide norme, bensì il tentativo umano di dare risposte di giustizia all’esistenza sociale degli esseri umani, si comprende come tale tensione all’equanimità produca una tipica voce dell’Io come quella appunto del Super Io.
Ci siamo dilungati su questa citazione anche perché riflette la concezione del rapporto tra moralità ed etica di Assagioli. La ritroviamo in particolare in un suo scritto “Coscienza spirituale e coscienza astrale” dove il nostro autore critica la moda di tanta parte della New Age di considerare la morale qualcosa che non attiene più a chi si dedica al percorso spirituale.
Dalla citazione emerge anche il tratto fondamentale della subpersonalità ossessiva: il dubbio paralizzante nel contrasto stridente tra morale ed etica e, da un punto di vista più strettamente psicologico, tra quanto abbiamo interiorizzato proveniente dall’ambiente esterno e la nostra più intima vocazione che solo l’Io, nella sua posizione di centralità, è in grado di esprimere.
Faust e l’Io Idealizzato
Siamo giunti infine all’ultimo personaggio in rappresentanza dell’Io Idealizzato la cui natura sociale – scrive Zatti – lo rende molto sensibile alle aspettative provenienti dalla dimensione collettiva, e che guarda caso corrisponde nell’inventario di Assagioli a “Quello che vorremmo sembrare agli altri”. Questo personaggio è Faust che però è tutto tranne che un conformista come ci si aspetterebbe da chi ha in così gran considerazione gli altri. Di fatto anche qui ci ritroviamo ad un bivio che discrimina tra chi si lascia plasmare passivamente dal contesto e chi si sente partecipe per un senso di forte appartenenza assumendosi tutta la responsabilità che ne consegue (i principali meccanismi di difesa dell’Io Idealizzato sono la sublimazione, l’ascetismo, la razionalizzazione, l’intellettualizzazione e il perfezionismo). Tra le diverse manifestazioni dell’evoluzione spirituale Assagioli annovera questo passaggio graduale da forme di egocentrismo esclusivista ad un sentirsi sempre più partecipi di realtà sociali sempre più grandi fino ad esperire il senso di appartenenza all’umanità intera. Questa è la forma più evoluta di appartenenza che ci avvicina all’esperienza di quell’Uno che è totalità ed unione col Sé.
“Con riferimento alle voci dell’Io, Faust richiama senz’altro il processo di ascesa e conquista del Sé, che un altro psicoanalista come Jung ha posto come uno degli obiettivi di ciascun essere umano. In questo quadro simbolico, allora, la voce dell’Io Idealizzato non costituisce più solo il modo di essere a cui gli altri mi vorrebbero riportare (pirandellianamente: “sono come tu mi vuoi”), bensì anche il modo alto che l’Io avrebbe di vedere sé dentro un processo di conquista dei propri spazi mitici.”(p.92)
“Sono come tu mi vuoi”: parla la subpersonalità isterica che nella sua espressione di normalità seduce plasmandosi sulla volontà altrui. Mancando un centro unificante si produce una frammentazione della personalità. Faust vi ha rinunciato vendendo l’anima al diavolo; ha rinunciato all’unità di senso a favore del piacere effimero che lo identifica di volta in volta con l’oggetto del desiderio. Ma è proprio nella ripetizione alienante del consumo che egli può consumare l’illusione che lo tiene prigioniero: la redenzione è qui sinonimo di riunificazione dopo aver esperito l’illusione a cui induce il diàbolos che significa appunto divisione.
Queste Voci dell’Io, come abbiamo accennato, le ritroviamo anche in psicosintesi nelle quattro subpersonalità principali (la depressiva, la schizoide, l’ossessiva e l’isterica) come è evidenziato nel disegno. Tuttavia non è nostra intenzione far coincidere impostazioni non sempre orientate nella stessa prospettiva, errore in cui si potrebbe incorrere volendolo interpretare in modo schematico. Ci preme anzi salvaguardare la molteplicità prospettica e sottolineare che qualsiasi chiusura sistemica rischia di voler far quadrare ciò che sarebbe meglio tenere aperto; aperto all’influsso del Sé che è molto di più di quanto le nostre facoltà umane sono in grado di immaginare. Ed è questa l’ottica con cui abbiamo inserito anche le riflessioni seguenti.
Scritto nel 2018 da:
Fernando Potì e Paolo Menegot