La dissociazione traumatica

Riflessioni su “La dissociazione traumatica comprenderla e affrontarla” di Suzette Boon, Kathy Steele, Onno Van Der Hart

Leggendo e tentando di mettere in pratica “La dissociazione traumatica” sono rimasto sorpreso soprattutto da 3 aspetti. Il primo, e il più generale, è l’evidenza documentata che quello che c’è dentro è anche quello che c’è fuori. In altre parole la nostra interiorità è simile alla nostra esteriorità: le ‘parti’ dentro di noi descritte meticolosamente nelle loro varietà e proprietà (che assomigliano tanto – ma proprio tanto – alle subpersonalità della psicosintesi) le ritrovo, con sfaccettature di volta in volta diverse e sempre più incisive, nelle dinamiche relazionali esterne… e nonostante la convinzione che l’esterno è lo specchio dell’interno non ero ancora arrivato ad un livello di dettaglio a cui mi conducevano per mano, e mi stanno conducendo ancora visto che continuo a fare gli esercizi e a rileggerlo, gli artefici del manuale.

Per cui mi si è ricapovolta la situazione: quelli che sembravano dettagli esteriori sono diventati puntualizzazioni di un mondo interiore piuttosto complicato dove c’è una parte che rifiuta un’altra parte perché debole e bisognosa e finisce per volgergli le spalle ogni volta che la incontra. E non stiamo parlando del tipo incontrato per caso che ci sta sulle scatole, stiamo parlando di parti di noi stessi in conflitto di cui siamo del tutto o in parte inconsapevoli ma di cui subiamo il depauperamento energetico per il continuo stress che producono. Qui è sin troppo evidente che stiamo parlando di un ventaglio di situazioni che vanno dal trauma psicopatologicamente rilevante alle cosiddette normalissime relazioni quotidiane ivi incluse quelle professionalmente protette che dalla dissociazione degli attori coinvolti non sono certo protette almeno per quella che è la mia personale esperienza.

E’ ripreso così l’andirivieni tra guardarsi dentro e vedersi fuori nella ricerca rassicurante di tipologie che ti inquadrano e ti danno la soluzione, cosa che gli autori sconsigliano richiamando quella unicità che normalmente ci salva da ciò che ci repelle e ci riconsegna al mal comune mezzo gaudio. Certo che di parti ce n’è a iosa, ed ognuna ci suggerisce trame occulte che si svolgono in noi, senza di noi in tutto o in parte, talvolta contro la ‘nostra’ volontà, di quella parte cioè che in qualche modo riesce a barcamenarsi nella vita quotidiana.

La seconda cosa che mi ha colpito è la straordinaria somiglianza delle ‘parti’ con le ‘subpersonalità’ della Psicosintesi. Ma qui, nella dissociazione traumatica che può avere livelli molto differenti, l’affondo è per chi vive ancora il ‘tempo del trauma’ come presente e attivo dentro e fuori di sé. Le specificazioni non sono però inutili per molti altri in particolare per chi si imbarca in un percorso di educatore perché molto spesso il trauma si annida negli interstizi della nostra psiche come un virus che solo determinate procedure (circostanze, occasioni) possono riattivare nella sua incontrollata e devastante replicabilità.

Leggendo e tentando di mettere in pratica “La dissociazione traumatica” ho rivissuto gli anni del mio corso per counselor psicosintetico dove su indicazione degli educatori mi sono imbarcato in una analisi del mio animo molteplice aprendo un libro che era lì a portata di mano ma che per decenni avevo snobbato preso come ero da ‘metafisiche meditazioni’. L’analisi delle mie subpersonalità, con tutto il contorno di conoscenze che la supportano e la approfondiscono (non dimenticherò mai “Le quattro forme dell’angoscia” di Fritz Riemann), è stata per me una svolta epocale ancora in corso per ritrovare me stesso a partire da ‘basi sicure’ e che forse si concluderà dopo aver finalmente separato attentamente il sottile dallo spesso – come consigliavano gli alchimisti -, che tradotto in termini di psicologia moderna vuol dire distinguere ‘dissociazione’ (da recuperare e integrare) da ‘disidentificazione’ (da includere e superare).

E qui non posso che ampliare la somiglianza ‘parti’ / ‘subpersonalità’ a tutta l’impostazione del lavoro così come proposto dalla psicosintesi e dagli autori di “La dissociazione traumatica comprenderla e affrontarla” che come si sarà notato sono significativamente due donne ed un uomo, ivi comprese le tecniche immaginative di cui si fa ampio uso per non dire della considerazione dell’utente che è il vero attore di primo piano a cui, con sensibilità e generosità, viene consegnato un patrimonio di esperienze professionali e umane per farne il miglior utilizzo possibile dipendente dalla sua unicità costantemente considerata e rispettata.

La terza considerazione riguarda appunto questa similarità di metodi e tecniche. Dalla lettura del testo e dai riferimenti bibliografici di “La dissociazione traumatica” nulla lascia trasparire una osmosi di indottrinamento psicosintetico tal ché sono indotto a pensare che certe idee, metodi, approcci, tecniche, etc. emergono come qualcosa di diffuso di cui l’evoluzione stessa dell’umanità necessita. Allora, qua e là, spuntano queste eccellenze di esperienze e di speranze future che danno corpo ai nuovi bisogni, li soddisfano come una domanda che trova finalmente la sua risposta.

E così, come in passato alcune invenzioni cruciali per lo sviluppo tecnologico circolavano in più menti contemporaneamente, oggi la nuova frontiera è la ‘cura’ di se stessi e del proprio rapporto con l’universo evidenziato dall’idea di ‘totalità’ dello stadio integrale descritto da Wilber (“Meditazione Integrale”. Una ‘cura’ che non guarisce corpo e spirito come entità separate ma li vede uniti inscindibilmente: o si salvano entrambi o sono destinati entrambi a soccombere.

Tutto questo era stato previsto in tempi pionieristici da Roberto Assagioli quando scriveva: “Si va verso una spiritualità integrale, che include tutto l’uomo, senza compartimenti stagni, senza opposizione fra cuore e mente, fra anima e corpo, fra vita interna e vita pratica e che si estende alla vita sociale…” (“Lo sviluppo transpersonale”, p.172)

Lavis, 02/06/2021

Fernando Potì